La storia più remota dei Longobardi è ancora avvolta dall'oscurità e dalle leggende. Scarse
le tracce archeologiche, copiose invece le notizie leggendarie da interpretare quindi con estrema precauzione.
Tracceremo qui un breve sunto delle vicende che li videro protagonisti.
Nella penuria di testimonianze certe, giocano allora un ruolo di prim'ordine l'anonima Origo gentis
Langobardorum e, soprattutto, l'Historia Langobardorum di Paolo Diacono che, scritta
intorno al 780 da uno dei maggiori intellettuali vissuti alla corte di Carlo Magno, monaco benedettino
nativo di Cividale, è spesso l'unica fonte in grado di diradare un po' le tenebre. La sua narrazione va
integrata dai classici Strabone, Tacito, Velleio Patercolo, e dai bizantini Jordanes e Procopio di Cesarea,
mentre cenni più scarni ma ugualmente importanti si trovano nella Historia Francorum di Gregorio di Tours e
nelle cronache di Fredegario e di Mario Aveticese. Tutte queste fonti non bastano però a
chiarire l'esatto luogo di origine dei Longobardi, che resta un mistero. Paolo Diacono e l'Origo affermano
che fosse la Scandinavia, ma non si hanno riscontri che lo provino. Da lì, un terzo di loro avrebbe poi
mosso verso sud in cerca di terre e, in un'area difficile da identificare ma probabilmente compresa tra la
Vistola e l'Elba, si sarebbe scontrata con i Vandali e in questa occasione, secondo la
leggenda, i Longobardi avrebbero assunto il loro nome.
Il panorama si fa più chiaro quando compaiono per la prima volta nelle fonti antiche, ossia nel I secolo
a.C. Sono già stanziati sull'Elba, presso la foce del fiume e alla base della penisola dello Jutland.
Intorno al 488 si trasferiscono nel Rugiland, a nord del Danubio, prendendo il posto dei Rugi appena
annientati da Odoacre dopo due campagne militari, ed entrano a contatto con il mondo bizantino. In una zona
cruciale come quella del bacino settentrionale del Danubio, ottengono il rango di foederati in un'alleanza
che si dimostrerà lungimirante per contenere l'espansione dei Franchi e dei Gepidi. Ma che darà i suoi
frutti soprattutto durante la guerra greco-gotica (535-553): ai Longobardi, remunerati da Giustiniano con
parte della Pannonia (corrispondente all'odierna Ungheria) e del Norico (Austria e parte della Slovenia), in
cambio viene chiesto infatti di fornire un contingente in Italia che contribuirà in maniera determinante
alla vittoria nello scontro decisivo di Gualdo Tadino (552).
Quello pannonico può essere considerato, per i Longobardi, il "periodo di formazione", frutto del contatto
con Bisanzio ma anche con gli altri germani e le genti delle steppe. Le necropoli ungheresi (Varpalota,
Szentendre) restituiscono manufatti di importazione (vetri romani, bacili di bronzo) che provano attivi
scambi culturali e commerciali col Mediterraneo; tombe differenziate per status sono spia di una più
consapevole articolazione sociale; gli uomini longobardi si uniscono a donne autoctone seppellite anch'esse
secondo l'uso dei nuovi arrivati; infine compare l'uso della staffa accanto ad armi e ornamenti di uso
tipicamente orientale. Nel crogiolo pannonico, dunque, i Longobardi assumono molti dei tratti che li
avrebbero da quel momento in poi caratterizzati come popolo.
Alla morte di Giustiniano, venuta meno la politica di equilibrio tenuta da Bisanzio con le popolazioni di
area danubiana, i Longobardi si alleano con gli Avari e nel 567 sferrano un attacco congiunto ai danni dei
Gepidi, annientandoli. Il loro re, Cunimondo, cade nelle mani del longobardo Alboino che lo uccide e ne
sposa la figlia Rosmunda. preparando nel contempo i suoi ad una nuova decisiva fase di conquista. Obiettivo,
l'Italia.
Nella Pasqua del 568 Alboino varcò le Alpi da Emona e si diresse lungo il Natisone verso Forum Iulii
(Cividale). In marcia con lui vi era un intero popolo, accompagnato da sterminate mandrie di bestiame, cui
si erano uniti Svevi, Turingi, Gepidi, Sarmati e Sassoni per un totale di circa 150.000 persone. I
Longobardi erano suddivisi in fare, gruppi allargati che comprendevano uomini, donne, anziani, bambini (e
anche schiavi e bestiame) dalla forte connotazione militare: il nucleo fondante, legato da vincoli familiari
(Sippe, stirpe o clan gentilizio), era infatti integrato dall'esistenza di un gruppo di guerrieri uniti
attorno a un capo (Gefolgschaft), impersonato di solito da un duca. La fara (dalla radice germanica comune
di faran, viaggiare) era dunque una unità militare in marcia che oltre a combattere era in grado di
spostarsi e occupare i territori - data la presenza accanto ai guerrieri anche di chi non portava le armi -
con una discreta presenza numerica. Una volta insediata - di norma su abitati già esistenti -, la fara
assumeva il controllo del territorio per dar vita a strutture progressivamente più stabili.
Conquistata Cividale, i Longobardi organizzarono l'occupazione del territorio. Alboino vi insediò un uomo di
sua fiducia, il nipote Gisulfo: lo scopo era coprirsi le spalle da eventuali attacchi bizantini e avari e
garantirsi un avamposto per l'eventuale ritirata. La conquista, però, fu più facile del previsto per la
quasi totale mancanza di una controffensiva. Nel corso del 568 caddero una dopo l'altra Vicenza, Verona e,
soprattutto, Aquileia, sede del Patriarcato, il cui clero si rifugiò sulla vicina isola di Grado protetta
dalla laguna.
La spinta offensiva continuò nei mesi seguenti. Il 3 settembre 569 Alboino conquistò Milano mettendo in fuga
l'arcivescovo che riparò a Genova. Pavia invece sarebbe caduta nel 572, dopo un assedio durato tre anni,
mentre altri contingenti si spingevano fino alla Tuscia e all'Umbria, poi nelle Marche e fino al Sannio,
dove nel 570 Zottone prese Benevento. Ai bizantini, che avevano riconquistato la penisola da meno di un
ventennio, restavano in mano solo pochi avamposti: l'Esarcato, la Pentapoli, il Lazio con Roma e le coste.
Quali le ragioni di questa avanzata travolgente? Il dibattito è ancora aperto. Di certo l'Italia, devastata
dal recentissimo conflitto greco-gotico, non riuscì ad opporre resistenza tanto più che gli stessi
bizantini, dopo la resa dei Goti, avevano ritirato le truppe lasciando il territorio sguarnito. Visti i
recenti fatti, infine, è anche verosimile che gli stessi Goti ancora presenti sulla penisola non abbiano
fatto molto per impedire di essere "conquistati" da altri germani piuttosto che restare in mano bizantina.
Comunque sia, quella che Alboino doveva razionalizzare era una vasta compagine territoriale da controllare
con pochi uomini.
Fu introdotta così la carica di dux, di evidente richiamo bizantino e dallo spiccato valore militare. Si
poteva essere nominati duchi dal re in persona o diventarlo per meriti personali. La presenza dei duchi a
capo di città, castelli e centri fortificati da un lato permetteva il capillare controllo militare del
territorio, ma dall'altro gettava le basi per la creazione di poteri di tipo territoriale che potevano
rappresentare un elemento di debolezza per la struttura ancora fragile del regno, favorendo spinte
centrifughe, complotti e ribellioni. Ne fecero le spese lo stesso Alboino, che fu ucciso durante una
congiura e il suo successore Clefi, assassinato nell'agosto del 574 forse su istigazione bizantina. Ai due
delitti seguirono dieci anni di completa anarchia: i duchi alla testa delle città conquistate erano liberi
di combattere alleandosi, all'occorrenza, persino con Bisanzio che, a sua volta, sfruttava il caos e le
divisioni nella speranza della riconquista. In questo contesto vi fu chi, come Faroaldo, seppe approfittare
dei cambi di fronte per ritagliarsi un ruolo eminente e fondare a Spoleto un ducato destinato (come il
"gemello" di Benevento) a mantenere anche in futuro, rispetto al potere centrale, un'autonomia pressoché
completa.
L'arrivo dei Longobardi cambiò radicalmente lo scenario sociale dell'Italia. La classe dirigente romana di
grandi proprietari fondiari fu sostituita in blocco dai conquistatori: alcuni possessores furono fisicamente
eliminati, chi restò fu costretto a cedere, in base al regime dell'hospitalitas, un terzo delle proprietà:
il grosso dei territori, tuttavia, fu espropriato in maniera violenta. Durante l'interregno la sensazione di
caos e precarietà si acuì ulteriormente con la ripresa degli attacchi da parte dei Franchi e dei Bizantini:
per far fronte a una situazione ormai insostenibile, nel 584 i duchi decisero di trovare un accordo ed
elessero re Autari, figlio di Clefi, devolvendo alla corona la metà dei loro beni a costituire il demanio
regio.
Così rifondata e dotata, la monarchia poté iniziare un percorso di consolidamento e di espansione. I
risultati furono la conquista dell'isola Comacina, l'ultimo caposaldo militare bizantino nell'area alpina, e
il contenimento della minaccia franca dal Piemonte. Nell'ottica di una generale pacificazione - non a caso
il re scelse per sé l'epiteto di Flavius, che richiamava l'idea di un potere stabile e civile in prestigiosa
continuità con la tradizione romana - Autari tentò anche un'alleanza matrimoniale con i Franchi, che però
fallì. Per tutelarsi si rivolse quindi ai loro tradizionali nemici e il 5 maggio 589, a Verona, sposò
Teodolinda, figlia del duca di Baviera Garibaldo: scelta che si sarebbe dimostrata foriera di importanti
conseguenze.
La politica di Autari fu volta anche a sanare i contrasti interni e a ricompattare i suoi facendo leva sul
fattore religioso. La nuova offensiva scatenata nel 590 da Franchi e Bizantini portò alla perdita di Modena,
Mantova e altre città padane come Piacenza, Parma e Reggio Emilia. Assediato a Pavia, il re fu salvato
dall'estate torrida e dalla dissenteria che costrinse i Franchi a ritirarsi oltralpe avviando un tentativo
di riconciliazione. Ma il 5 settembre 590, mentre le trattative di pace erano in atto, Autari moriva
all'improvviso, forse avvelenato.
Nel timore che il regno potesse sprofondare di nuovo nell'anarchia, Teodolinda ebbe facoltà - un unicum
nella storia longobarda - di scegliersi da sé, e subito, un nuovo sposo: il prescelto fu il duca di Torino
Agilulfo. La coppia reale governò, in continuità con quanto fatto da Autari, mirando all'ulteriore
consolidamento della corona, firmando trattati di pace con Franchi e Avari e riprendendo le ostilità contro
i Bizantini fino alla riconquista di Parma, Piacenza, Padova, Monselice, Este, Cremona e Mantova e
all'ulteriore espansione nel centro sud ad opera dei duchi di Spoleto e Benevento. Ma l'opera più importante
fu l'avvicinamento alla Chiesa di Roma, reso possibile dal rapporto di stima e amicizia intessuto dalla
regina, che era cattolica, con papa Gregorio Magno. Il popolo longobardo era ancora in gran parte pagano e
una parte aveva, probabilmente, aderito all'eresia ariana. Sotto l'influsso di Teodolinda, la corona
restituì al clero cattolico i beni sottratti durante la conquista, lasciò tornare i vescovi fuggiti alle
loro sedi e fondò chiese e monasteri.
Si trattava però anche di un calcolo politico: Agilulfo aveva capito che mantenere buoni rapporti col Papato
poteva evitare una fatale alleanza tra la Chiesa e Bisanzio. I monasteri, inoltre, rafforzavano la corona in
quanto centri economici e di potere ad essa indissolubilmente legati. In quest'ottica nel 612 i sovrani
concessero al missionario irlandese Colombano protezione e terre per fondare un'abbazia a Bobbio,
sull'Appennino piacentino: la posizione, strategicamente importante, sarebbe potuta risultare un'utilissima
testa di ponte verso la Liguria, ancora parzialmente in mano ai Bizantini. Agilulfo si adoperò inoltre per
sanare i contrasti religiosi tentando anche di ricomporre lo scisma tricapitolino - frattura sorta in seno
alla stessa Chiesa cattolica per motivi di carattere teologico - che pure all'inizio la stessa coppia reale
aveva favorito.
Il rafforzamento del regno si declina anche nell'importanza ormai istituzionale assunta dai ducati, non più
soltanto capisaldi militari ma centri di potere retti da funzionari che governano in nome e per conto del
re, depositari di poteri pubblici e affiancati da una rete di funzionari minori: un regno, insomma, che si
avviava a diventare finalmente Stato, retto da un sovrano che, nelle stesse intenzioni di Agilulfo, doveva
ora essere rex totius Italiae, non più soltanto re dei Longobardi vincitori, ma di tutto il popolo, italici
sottomessi compresi.
Il progetto di Agilulfo e Teodolinda era ambizioso e fu, com'era prevedibile, osteggiato dai membri del
partito tradizionalista: l'opposizione era tra chi, come la corona, intendeva promuovere l'integrazione tra
Longobardi e Romanici in un unico popolo e chi, come la nobiltà del Nordest, aspirava a mantenere aperto il
conflitto con Bisanzio in chiave espansionistica.
La situazione peggiorò dopo la morte di Agilulfo (616), quando il potere passò al giovane figlio
(battezzato) Adaloaldo, che lo esercitò assieme alla madre. Nel 624 Arioaldo, capo dei ribelli, insorse e
l'anno dopo con un colpo di stato depose Adaloaldo prendendone il posto. Tuttavia la restaurazione tentata
dal duca di Torino e dai suoi sostenitori non ebbe un successo duraturo. Già il suo successore, il duca di
Brescia Rotari comprese che attuare una politica di relativa integrazione avrebbe consentito di ottenere
l'appoggio indispensabile per conquistare gli ultimi territori (parte della Liguria e dell'Emilia, mentre
fallì l'attacco all'Esarcato) ancora in mano bizantina.
Ariberto I continuò l'opera del padre volta ad ottenere l'appoggio cattolico contro Bisanzio. Quando morì,
nel 661, suddivise il regno tra i due figli, Godeperto e Pertarito, che si stabilirono rispettivamente a
Milano e a Pavia. La divisione del regno, insolita per i longobardi, portò ad un nuovo conflitto che
coinvolse anche il duca di Benevento Grimoaldo, chiamato in causa dallo stesso Godeperto. Originario del
Friuli, apparteneva all'antica stirpe di Alboino: era fuggito nel sud della penisola per scampare alla
distruzione di Cividale, perpetrata nel 610 dagli Avari. Dopo aver ucciso a tradimento Godeperto, e
costretto alla fuga oltralpe Pertarito, Grimoaldo prese il potere a Pavia nel 662 e governò fino alla morte
(671) combattendo contro i Bizantini - cui strappò buona parte della Puglia -, riorganizzando il suo Friuli
per far fronte alle minacce avare e riuscendo persino a tenere sotto controllo i semi-indipendenti ducati di
Spoleto e Benevento.
Alla sua morte - anche in questo caso sospetta - tornò sul trono il cattolico Pertarito. Il suo maggiore
successo fu la pace perpetua con Bisanzio, che si rassegnò alla perdita di gran parte della penisola in
cambio della rinuncia da parte dei Longobardi ad ogni ulteriore espansione. Ma la sua politica imbelle
irritò di nuovo i mai sopiti tradizionalisti che, guidati dal duca di Trento Alachis, si scagliarono contro
Pertarito e suo figlio Cuniperto (da lui associato al trono). Nel 688, poco dopo la morte di Pertarito, si
arrivò a Cornate d'Adda (oggi in provincia di Monza e Brianza) allo scontro decisivo tra le due fazioni che
si concluse con la sconfitta definitiva dei ribelli.
L'ultimo secolo di vita del regno longobardo fu caratterizzato dal progressivo superamento dei conflitti
interni. Dopo un decennio di lotte dinastiche seguite alla morte (700) di Cuniperto, il potere fu preso nel
712 da Liutprando. Sotto di lui - l'epiteto di piissimus rex è eloquente - ebbe nuovo impulso la
cristianizzazione. Molte furono le attenzioni riservate alla Chiesa, a cominciare dalla celebre donazione -
nel 728 - "agli apostoli Pietro e Paolo" del borgo e dei castelli di Sutri: primo nucleo del futuro potere
territoriale pontificio. In questo periodo inoltre si diffuse l'organizzazione ecclesiastica del territorio
per pievi, chiese parrocchiali dalle quali dipendevano altre chiese o templi minori.
Ma Liutprando riprese anche l'opera legislativa di Rotari e la perfezionò introducendo nel 713 nuove norme
per la tutela dei poveri, delle donne e dei fanciulli; permise inoltre formalmente i matrimoni tra donne
longobarde libere e romani liberi (vietati invece da Rotari), equiparando il diritto dei due popoli.
Migliorò l'organizzazione del regno e della burocrazia, aumentando il controllo sui funzionari, a partire
dai duchi e dai gastaldi (iudices), responsabili di una città sede vescovile e del territorio rurale ad essa
circostante (iudiciaria), dipendenti direttamente dal re. Ai gastaldi erano sottoposti i decani e i
saltarii, che amministravano i centri rurali minori, e dai quali dipendeva a sua volta lo sculdascio, che
aveva la responsabilità sul singolo villaggio. Il ferreo controllo che il re intendeva mantenere sui suoi
sottoposti era proporzionale alle ambizioni di dominio sull'intera Italia, mire contrastate dai Bizantini e
irritanti anche per il Pontefice. Liutprando cercò un avvicinamento coi Franchi e lo ottenne debellando i
saraceni che infestavano la Provenza. Malgrado i tentativi di stabilizzare lo stato, alla sua morte la
situazione precipitò nuovamente in un caos ormai prodromico alla fine del regno.
Dopo una breve parentesi, nel 749 il suo successore Rachis fu allontanato dal potere da Astolfo che riprese
con forza una politica espansionistica aggressiva riuscendo ad occupare Ravenna e l'Esarcato e arrivando a
minacciare la stessa Roma. Papa Stefano II chiese l'intervento dei Franchi, che, comandati dal loro re
Pipino il Breve, sconfissero il sovrano longobardo e lo costrinsero a restituire i beni sottratti alla
Chiesa e alla rinuncia a ogni ulteriore espansione.
Dopo la morte di Astolfo, nel 756, Rachis uscì dal convento nel quale era stato rinchiuso, ma fu
detronizzato nuovamente dal duca di Tuscia Desiderio, sostenuto stavolta dal Papato. Avendo ormai compreso
la portata della minaccia d'Oltralpe, Desiderio tentò, tramite una politica dinastica lungimirante, di
ottenere l'alleanza con i Franchi dando in spose le proprie figlie ai figli di Pipino, Carlo (poi Carlo
Magno) e Carlomanno. Ma quando quest'ultimo morì, Carlo - a capo ormai dell'intero Regno - ripudiò la moglie
e marciò contro i Longobardi per sottometterli. E con l'aiuto del Pontefice Adriano I riuscì nell'impresa:
nel 774 Pavia fu conquistata, Desiderio e la moglie catturati e Carlo ottenne di unire alla corona di re dei
Franchi quella dei Longobardi. Con l'esilio del re in un monastero francese e l'effimera resistenza tentata
da Adelchi, rifugiatosi presso i Bizantini, terminava la grande avventura dei discendenti di Alboino in
Italia.