Nota Editore
L'ALTARE DI RATCHIS
Manufatto Originale
Oltre milletrecento anni ci separano dal secolo VIII, epoca in cui il duca longobardo Ratchis commissionò l’altare che porta il suo nome; e questo prestigioso monumento, custodito nel Museo Cristiano di Cividale del Friuli (Udine) si presenta ancor oggi carico di potenza espressiva e fascino: ci spalanca l’importante pagina di Cividale, antica Forum Iulii e prima provincia longobarda, fondata da re Alboino, nella primavera del 568, al suo ingresso in Italia.
IL CONTESTO

L’altare stava in origine in una chiesa cividalese dedicata a San Giovanni Battista. Per integrità e perizia scultorea è una delle testimonianze più prestigiose di quanto prodotto in epoca longobarda e nel secolo che, in virtù dell’accorta politica di re Liutprando (712-744), visse l’apogeo culturale e artistico (“rinascita liutprandea”). I Longobardi, entrati in Italia dai confini nord orientali percorrendo le antiche strade militari romane avevano lasciato alle spalle la Pannonia, provincia romana in cui ebbero il loro primo contatto con la cultura latina. Popolo nomade, anticamente devoto a culti pagani, varcò i confini delle Alpi Giulie come cristiano ariano, occupando un territorio allora dominato dall’impero bizantino. Durante i secoli VI-VIII molteplici furono gli scontri aperti tra Longobardi, Bizantini e papato. Ciò nonostante, in un ristretto arco di tempo i Longobardi si convertirono progressivamente alla chiesa di Roma e la sostennero con ampie donazioni (donazione di Sutri) e con la fondazione di luoghi di culto e monasteri. Così avvenne nel terzo decennio del secolo VIII, quando il duca Ratchis (737-744), intimo amico di Paolo Diacono formatosi anch’egli presso la corte ducale di Forum Iulii, commissionò l’altare di Ratchis. Il duca nominato per intervento di re Liutprando, volle costruire un monumento sacro che ribadisse l’alleanza con la chiesa locale e, contemporaneamente, onorasse la memoria dell’amato padre Pemmone, prematuramente rimosso dalla carica ducale, poiché aveva osteggiato il patriarca di Aquileia Callisto (730-756) nel suo progetto di trasferire la sede patriarcale in Cividale (Historia Langobardorum VI, 51). Ratchis governò per sette anni Forum Iulii da allora sede anche del patriarcato. Il suo governo volto a rinsaldare i rapporti con la chiesa locale, a rafforzare i confini orientali e supportare il re nelle sue campagne militari fu a tal punto apprezzato che egli succedette a re Liutprando, guidando il regno in due fasi: dal 744 al 749 e nel 756, dopo la morte inaspettata di re Astolfo. «Divino afflatus instinctu» («ispirato da afflato divino», come recitano le cronache), dopo aver incontrato papa Zaccaria (741-752) vestì l’abito monastico e trascorse gli ultimi anni della sua vita a Montecassino, centro monastico emergente, strategicamente situato a confine tra il patrimonium Petri e l’Italia Langobardorum minor.
L'OPERA

L’altare si presenta come un parallelepipedo in pietra d'Istria, le cui dimensioni (1,44 x 0,90 x 0,88 m) sono perfettamente calibrate intorno a rapporti di sezione aurea. La lastra superiore che fungeva da mensa è andata distrutta, mentre straordinariamente leggibili ed integri permangono i prospetti laterali che ripropongono ornati e soggetti religiosi alla sommità dei quali scorre un’epigrafe latina. L’iscrizione offre un sintetico ed efficace quadro del contesto culturale dell’opera: il mecenatismo del duca Ratchis, emulazione di una politica già avviata dal padre Pemmone; l’originaria collocazione dell’altare in una «domum beati Iohannis», durante una fase di rinascita architettonica dell’antica Forum Iulii («ubique dei reformarentur»); infine, l’originario aspetto dell’altare, rifinito da impasti policromi («marmoris colore») e collocato al di sotto di un ciborio impreziosito da un oggetto di oreficeria («pendola teguro pulchro»). Conclusa la lettura dell’epigrafe, ruotando intorno all’altare in senso orario con andamento bustrofedico, le scene si presentano secondo l’ordine cronologico del racconto evangelico: la Visitazione di Maria ad Elisabetta, l’Adorazione dei Magi, l’Ascensione di Cristo. Nelle scene le figure sono fortemente bidimensionali e si staccano nettamente dal piano di fondo, che rappresenta quasi un disegno a rilievo.


Coerentemente a uno stile fortemente astrattizzante, distante dalla resa naturalistica tardo antica, le figure umane presentano alcune deformazioni, quali quelle delle grandi mani degli angeli che sorreggono la mandorla centrale. I volti sono caratterizzati dall'assottigliarsi del mento (volti a "pera rovesciata"). L'antinaturalismo formale e il forte rimbalzo cromatico che le superfici avevano un tempo sottolineano con forza il valore sacro e simbolico dell'opera. Si può notare inoltre come la gerarchia dimensionale sia utilizzata, dando una grandezza maggiore ai personaggi di rilievo come Maria e Gesù. I miracolosi concepimenti di Elisabetta e Maria amplificano grandezza e mistero della vicenda del Messia; l’Ascensione di Cristo allude, contemporaneamente, al ritorno di Gesù sulla terra (Ap 4, 2-8) e porge un implicito messaggio di salvezza e redenzione. I soggetti scolpiti ribadiscono la predilezione della committenza per il culto di Maria, madre di Cristo; per Giovanni Battista, precursore della “buona novella” e simbolo di conversione; per Cristo salvator mundi. Ogni lastra è incorniciata da gustosi ornati che ripropongono in chiave geometrizzata repertori decorativi attinti
Coerentemente ai semi stilistico-formali gettati in epoca tardo antica nell’area del bacino del Mediterraneo,
il rilievo della lastra posteriore, l'unica che non presenti figure umane, ha un carattere semplificato ed
intonazioni astrattizzanti; essa ripropone, contemporaneamente, motivi decorativi familiari alla produzione
orafa longobarda e barbarica.
Questo aspetto è particolarmente evidente nelle due grandi croci, ai lati di una nicchia centrale, di foggia
quadrata , che richiamano da vicino la produzione orafa longobarda.
Le raffinate particolarità tecniche di finitura dell’opera, l’adozione del doppio codice comunicativo (scritto
e figurato), uniti al dato ineludibile di una committenza di alto rango ribadiscono la destinazione elitaria
di questo sacro arredo.

L’ALTARE NEL SECOLO VIII
Nel secolo VIII, questo prestigioso altare si porgeva agli occhi dei fedeli in modo assai diverso da come lo ammiriamo oggi: il suo intaglio accoglieva stratificazioni di impasti policromi, gemme e lamine metalliche la cui ricchezza cromatica era simile a quella dei coevi mosaici, stucchi, miniature, avori ed oggetti di oreficeria. La tavolozza cromatica dei rossi, gialli, verdi e azzurri era ricca e ricercata, allestita ad arte in modo da ottenere colori con calibrate tonalità. Coerentemente a quanto descritto nei manuali altomedievali di tecniche artistiche (Eraclio, Mappae Claviculae, De diversis artibus di Teofilo), l’altare appariva rifinito da tonalità sature e brillanti. La scarsa luce delle monofore e lampade ad olio esaltava tale estetica, dando risalto al titlulum (epigrafe) rifinito con lamina d’oro e agli iridescenti castoni. La rutilanza cromatica fondeva in un tutt’uno dati naturalistici, valenze simboliche e teologiche guidando il fedele alla contemplazione del sacro.
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